di Michele Faggi
Il cinema di lav diaz è un fiume in piena, i 450 minuti di Melancholia restituiscono un rapporto complesso con il concetto di durata, costituito da una serie di piani sequenza il film del regista filippino complica e disassembla il tempo del racconto con quello di una visione che non è semplicemente materializzazione del tempo nello spazio dell’inquadratura quanto accumulazione di punti di vista capaci di rivelare una relazione intima e allo stesso tempo storica con la cultura delle filippine. Se rimangono tracce di cinema documentario in Melancholia, queste emergono dall’ordito di relazioni che legano i personaggi del film, sempre in bilico tra verità e performance, simulazione e partecipazione. E’ un vortice che non punta verso il basso, ma è al contrario ricco di aperture; la tentazione è quella di considerare questa percezione del tempo come flusso lineare solo per la persistenza colossale e ipnotica delle inquadrature o al contrario di leggerla come un racconto a ritroso; il movimento è in verità molto più complesso e anche quando si riavvolge su se stesso aggiunge elementi centrifughi che non chiudono mai le possibilità della visione rilanciandola in avanti. Diaz ci presenta tre individui alla ricerca di se stessi e a poco a poco ci impedisce una completa immedesimazione allontanandosi dal loro ruolo, rivelandocelo da un angolatura ambigua situata tra il vero e il falso, stratificando una storia di dolore che esce continuamente dai confini della finzione e penetra forme di ricerca più intime. Una prostituta, una suora che raccoglie fondi per i poveri deambulando senza posa per le strade remote di Sagada minacciate dalla natura , un magnaccia, tre visioni estreme sulle filippine soggette ad improvvisa mutazione nel gioco di ruolo concepito da un regista sperimentale, un insegnante e una donna che non regge il peso emotivo della simulazione, uccidendosi. Il centro della ricerca è quello su due corpi rimossi, “missing” che a poco a poco erode tutti i piani del racconto e riconduce alla verità della performance, immersa in una relazione estrema, intima e dolorosa con la terra, la natura e il dolore. Diaz filma in video e in bianco e nero con pochissimi mezzi, microfonando gli ambienti con un approccio diretto senza cancellare le imperfezioni del suono causate dalle intemperie, ma al contrario accentuandole in primo piano proprio quando il rigore del tempo sembra restituirci uno sguardo immobile ed estenuante. Dopo le nove ore di Death in the land of Encantos, menzione speciale nella sezione Orizzonti a Venezia 64, Lav Diaz costruisce il suo cinema estenuante e d’impatto, potente e riflessivo; il ritorno alla terra natale del poeta Benjamin August nella terra distrutta dal tifone Reming viene quasi completamente interiorizzato nel processo di ricerca affrontato da Alberta, Julian e Rina in Melancholia; il titolo non è casuale e si riferisce a questa ricerca che costruisce un testo intimo e fortemente politico; nel parlare di Sagada, Diaz dice “…quando ci sono stato, per me tutto era tristezza; l’ambiente non ha offerto vero sollievo, ma ho avuto tempo per confrontarmi con questa depressione. In quel momento e in quel luogo ho compreso che non c’era una vera cura per la malinconia. Questa è la verità. Sai, ho letto Freud e, nel brano che dedica al lutto, dice che la libido è la cura per la malinconia. Uno studio offre l’uso clinico del suono e del movimento come strumenti psicologici per curarla. E, si, io ho provato tutto questo. La mia pratica del suonare la chitarra è fondata giusto sulla creazione di pattern sonori e di semplice rumore, mentre immagino movimenti, e lo faccio per curare me stesso da questa tristezza che mi sta uccidendo. Certo, la medicina moderna ha inventato il prozac, il litio e tutti questi prodotti chimici, e gli psichiatri, per bilanciare il triste mistero pieno di sofferenza che è la nostra esistenza, ma ci si risveglia sempre per scoprire che non c’è davvero cura. Alla fine, si deve affrontarla a modo proprio. Quindi si, Freud ha fallito…”
Ovvio e anche scontato, per chi si trovi a vivere questa esperienza visiva, riferirsi, anche superficialmente, al cinema di Straub-Huillet, a quello infinito di Bela Tarr, alla persistenza crudele del cinema di Pedro Costa, alle sculture temporali Tarkovskjane, alla storia selvaggia di Julio Bressane, in verità nel cinema di Lav Diaz c’è un movimento partecipativo e per improvvisa collisione, raggelante, che incolla i personaggi dentro una cornice naturale eccessiva nel suo uscire dai margini dello schermo, mentre percezione visiva e auditiva vengono travolte. Melancholia è stato concepito e sviluppato in un periodo di tempo piuttosto breve, considerando la sua durata; Diaz si è recato a Sagada senza sceneggiatura, senza storia, senza una mappa precisa del posto, da solo con i tre attori e la troupe ha penetrato il dolore e la solitudine del luogo, scrivendo di notte e sviluppando una ricerca che invece di procedere in avanti o riavvolgersi attorno ai segni della memoria, si infila nel non tempo di una percezione intima e solitaria.
Pubblicato il 8 settembre, 2008
In Venezia-65, nuove illusioni, orizzonti venezia 65, recensioni
This is another unofficial site for Lav Diaz, "...the great Filipino poet of cinema." (Cinema du reel, Paris).
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